domenica 29 maggio 2016

LASCIAMOCI NUTRIRE DI CRISTO PER IMPARARE A DARCI COME LUI

MEDITIAMO CON P. GIORGIO ROSSI
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 9, 11-17).


In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». 
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. 
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. 
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Nella zona desertica di Betsaida, alla sera di una giornata spesa a prendersi cura dell’anima e del corpo di cinquemila persone, Gesù, presi in mano cinque pani e due pesci, anticipa sotto gli occhi di tutti quei gesti eucaristici che nell’ultima Cena consegnerà ai Dodici dicendo: “fate questo in memoria di me” (1Cor 11,24b). Nel deserto, moltiplica il cibo e lo fa distribuire alla folla; nel Cenacolo, lo trasforma in se stesso ed è lui a distribuirlo ai discepoli.
Sono due episodi separati nel tempo, ma collegati in quell’evento fondamentale per la Chiesa che Paolo ha ricevuto e trasmesso a sua volta: l’inconcepibile miracolo dell’Eucaristia, un Corpo preparato dal Padre per dare a tutti gli uomini la Vita del Figlio (Eb 10,5).
Il prodigio di Betsaida serve a saziare il corpo dei molti che hanno seguito Gesù per tre giorni senza provviste “al sacco”; quello del Cenacolo annuncia la fine di una fame molto più profonda, diffusa, vitale: quella del cuore. La fame saziata nel deserto serve a capire che il pane materiale, preparato nei villaggi e nelle campagne dagli uomini, non può soddisfare il loro radicale bisogno di verità e di vita vera ed eterna; solo il pane-Carne e il vino-Sangue di Gesù sono quel cibo incorruttibile che impedisce di perire, poiché la sua sostanza è Dio.
Inquadrando il contesto immediato del fatto, Luca racconta che Gesù si era ritirato in disparte, ma non sembra minimamente infastidito da queste folle implacabili: l’evangelista rivela infatti che egli “le accolse” (Lc 9,11b). Evidentemente non si era ritirato per sfuggire alla gente che lo cercava. Semmai è il suo ritrarsi che lo dispone ad accogliere. Gesù è abituato a “rientrare in se stesso”. Perciò sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni.
E in quel suo rientrare spesso “nel segreto”, nella stanza più intima, incontra lo sguardo dell’Unico che vede nel segreto della sua anima, che non smette mai di considerarlo Figlio, sa di cosa Egli è capace e provvede a che lo mostri a noi che invece viviamo come orfani, che fanno tutto per essere notati e amati, ammirati e lodati; anche quando ci nascondiamo scappando dagli altri, in fondo è perché la nostra vita dipende da chi ci è intorno. Pericolosissima situazione di chi è vuoto dentro, nel cuore come nella mente, e vagabonda mendicando qualsiasi cosa pur di riempire la voragine che stordisce e rapisce gioia e pace.
Pericolosa per i giovani, che avvelenano con perversioni di ogni tipo occhi, mente e carne ancora verdi e perciò vulnerabilissimi, sporcando l’immagine dell’amore, della sessualità, delle relazioni tra uomo e donna, tra gli amici.
Pericolosa per gli adulti, che possono bruciare le Grazie ricevute barattando la primogenitura dei figli di Dio con un po’ di consolazione: prestigio, considerazione, ossequi e falsità senza limite e fine, che incensano il tempo sufficiente ad arraffarci la poca vita che ci rimane per abbandonarci più soli e disperati di prima.
Pericolosa per gli anziani, che possono cadere nella trappola dell’insoddisfazione, della solitudine, del sentirsi abbandonati da tutti, lasciandosi andare così alla mormorazione, al giudizio per figli e parenti, e trasformarsi in gocce di acido che sfregiano tutto ciò a cui si avvicinano.
Pericolosa per i sacerdoti e i religiosi, che si possono trasformare in esecutori freddi di culto e dispensatori di routine di sacramenti, che usano e pervertono le cose sante per saziare la propria carne ridotta a spugna secca.  
Quanti orfani sparsi nel mondo. Ci siamo dentro anche noi, che spendiamo il tempo fuori del segreto; che non abbiamo un luogo segreto dove si è figli del Padre e dove tornare per riposare.
Troppo spesso la nostra vita non ha segreti mentre tutto è tragicamente pubblico; sempre connessi con il mondo, sempre fuori come Esaù a disperdere la primogenitura, attingendo dall’esterno il senso che impedisca al tutto di volare via. 
Gesù allora ci invita a sedere a gruppi di cinquanta, a non essere più folla ma piccole comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono… Mangiano tutti e se ne avanza: è il segno di Gesù, è il “di più” dell’amore. È la logica del servizio, del saper condividere il poco che siamo e che abbiamo. Del non chiuderci mai in noi stessi ma del rientrare. Per poi uscire di nuovo. E di nuovo ancora.

Nel Sacramento dell’altare «il Signore viene incontro all'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,27), facendosi suo compagno di viaggio» (Sacramentum Caritatis, 2).
p. Giorgio Rossi